La teologia dell’icona si sviluppa di pari passo con le riflessioni patristiche sull’immagine. La riflessione sull’immagine di Dio nasce all'interno di ambienti multiformi che caratterizzano le società in cui i Padri vivono, in cui predicano e insegnano la fede cristiana, in periodi storici, specie nei primi secoli del cristianesimo, spesso contraddistinti da dispute sia con il pensiero ellenistico che con quello giudaico. Secondo la maggioranza dei Padri della Chiesa, ciò che rende lecita la venerazione delle immagini sacre e di conseguenza abolisce in via definitiva l'antica proibizione veterotestamentaria, è il mistero dell'Incarnazione. Intorno a questo evento al tempo stesso storico ed eterno, terreno e celeste si incentra tutto il senso dell'icona e della sua venerazione. In un preciso istante della storia umana Dio, assume una corporeità, una fisionomia precisa, un'identità chiara, quella di Gesù di Nazareth. Dio stesso da Immagine del Dio invisibile si fa icona visibile e sensibile, acquista un volto umano e questo rende lecita la sua raffigurazione. Per i cristiani, continuare a restare ancorati ai principi veterotestamentari di proibizione, significa adorare un Dio disincarnato. Va precisato però che questa concezione delle rappresentazioni iconografiche, non fu sempre né per tutti così chiara e positiva, ma soprattutto nei primi secoli in concomitanza del graduale passaggio dal linguaggio simbolico paleocristiano a quello successivo, caratterizzato da un più evidente legame dell'iconografia con la teologia e la liturgia della Chiesa, vi furono alcuni che nei loro scritti affermavano la non liceità delle raffigurazioni sacre. Tra questi sicuramente Origene ed Eusebio di Cesarea sono coloro che maggiormente manifestano una teologia aniconica o che si esprimono in maniera palesemente contraria nei confronti delle icone. Fu anche a partire da alcune loro asserzioni che nell'VIII-IX secolo si sviluppò quella corrente avversa alla venerazione delle immagini sacre che prese il nome di "iconoclasmo". Pensare però al cristianesimo dei primi tre secoli come radicalmente e universalmente negativo nei confronti delle rappresentazioni iconografiche, rischia di risultare una semplificazione eccessiva, anche in considerazione del fatto che fu proprio in questi tempi che si posero le basi dell'arte cristiana. D’altro canto, la stessa conversazione epistolare tra l'imperatrice Costanza ed Eusebio, fa supporre un fatto importante: già a quell'epoca (IV sec.) era diffuso l'uso di dipingere icone portatili, non solo di Cristo ma anche degli apostoli. Nel IV secolo, favorevoli alle icone si presentano i grandi padri Cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, come pure Giovanni Crisostomo. Già Atanasio esprime un concetto di immagine che sarà fondamentale per la successiva formazione della teologia dell'icona: tra l'icona e il suo prototipo (modello) non esiste una relazione di identità sostanziale ma una relazione di somiglianza. Cirillo di Alessandria dirà che l'umanità di Cristo non è un velo che nasconde la divinità ma è la stessa «carne di Dio». Ed in questo periodo le icone si moltiplicano anche grazie al sostegno offerto dai grandi teologi dell'epoca attraverso sia gli scritti che i discorsi. La Chiesa elaborò progressivamente una dottrina dell'icona, anche per rispondere adeguatamente alle eresie che emergevano. Nel VII secolo il pensiero di Massimo il Confessore porrà le basi cristologiche della teologia dell'icona che poi verranno precisate ed ampliate dai Concili e dalla riflessione di grandi teologi come Giovanni Damasceno e Teodoro Studita. Il volto umano di Gesù è l'immagine visibile del Figlio di Dio. In tal modo viene legittimata la possibilità, che Eusebio di Cesarea a suo tempo riteneva impossibile, della raffigurazione iconografica.
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