Tra il IV e il V secolo vengono edificate numerose basiliche in tutta la cristianità, si fissano le prime feste liturgiche e gli interni delle chiese sono rivestiti di cicli iconografici ordinati secondo schemi teologici.
In quest’epoca, cessato il martirio di sangue, nascono nuove forme di ascetismo cristiano, come quello dei monaci che si ritirano nei deserti per dedicarsi al combattimento spirituale. La teologia vissuta dei padri del deserto diventa fonte di ispirazione per la teologia speculativa e anche per gli iconografi che nelle loro opere, accanto al Cristo, alla Theotokos, agli Angeli, agli apostoli e ai martiri, cominciano a collocare anche questi nuovi modelli di vita cristiana: i monaci.
I soggetti delle icone rappresentano dei modelli da imitare a cui il cristiano è continuamente chiamato a guardare.
L’iconografia, quindi non aveva solo una funzione di biblia pauperum, di alfabeto per gli illetterati, ma si trattava di una catechesi visiva il cui insegnamento era rivolto a tutti, poiché mostrava ai cristiani di ogni livello sociale e culturale la via della salvezza. Non si trattava quindi di una semplice trascrizione letterale della Bibbia in immagine o di una narrazione, ma di un’interpretazione teologica di quegli eventi che non doveva sollecitare i gusti estetici o i sentimenti e le emozioni ma portare chi contemplava l’icona ad una conversione interiore e ad una sequela di Cristo più radicale.
Dal IV secolo fino al XV secolo, possiamo collocare l’epoca bizantina con la sua arte e i suoi capolavori. Mentre nella Chiesa di rito orientale l’arte ha continuato fino ad oggi, salvo rari episodi, a seguire i canoni antichi, nella Chiesa occidentale, l’iconografia liturgica si ferma al medioevo. Sotto l’aspetto artistico dal XIII secolo, il mondo occidentale inizia a separare arte e liturgia.
Con l’introduzione di una prospettiva diversa da quella tradizionale, e cioè quella di profondità o lineare, l’arte occidentale sceglie di guardare il mondo e le cose di Dio dal punto di vista dell’uomo, dal basso, restringendo però le possibilità di visuale al solo occhio di chi guarda. Si tratta per la verità di un “trompe l’oeil”, un inganno dell’occhio, una dissimulazione della realtà, e consiste nel costringere chi contempla un’opera d’arte a guardarla dalla prospettiva unica di chi l’ha dipinta.
L’icona invece ha sempre privilegiato una prospettiva rovesciata rispetto a quella naturalistica (che soprattutto in epoca rinascimentale e barocca avrà grande successo nel mondo latino), una prospettiva che guarda le cose dall’alto, da una logica soprannaturale e teologica, che è aperta a dilatarsi illimitatamente e non chiusa verso un orizzonte unico, rendendo possibile contemplare la realtà da infiniti punti di vista, insomma con gli occhi di Dio. Sotto l’aspetto teologico in occidente, questo processo di rottura con la Tradizione, inizia già dall’VIII secolo, quando in seguito all’errata traduzione dal greco da parte dei teologi latini, di alcuni termini relativi alla venerazione delle icone - a cui il VII Concilio Ecumenico di Nicea (787) obbliga l’intera cristianità - si ingenerarono delle divergenze tra la Chiesa occidentale e quella orientale, contrasti che porteranno fino al definitivo scisma del 1054.
Il Sinodo di Francoforte (794) indetto da Carlo Magno arrivò a tacciare di idolatria i Padri di Nicea che avevano affermato la liceità della venerazione delle icone. Per il Sinodo l’icona non era altro che una semplice decorazione (senza valore teologico e liturgico) e legata al solo arbitrio dell’artista. Questa visione dell’arte sacra che contraddiceva palesemente tutto l’insegnamento della Tradizione si diffuse in occidente, prima in maniera sotterranea e poi in superficie. Ma se gli affreschi giotteschi della basilica di Assisi hanno carattere unicamente narrativo non si può dire lo stesso dell’iconografia canonica precedente.
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