Per comprendere il senso profondo dell’icona è necessario allargare lo sguardo ad accogliere una visione particolare dell’arte, in cui l’autore e la sua opera scompaiono dietro una realtà che li supera, dove il contenuto rappresentato viene posto in primo piano mentre la mano che ne ha tracciato le forme e i colori resta spesso sconosciuta. Per l’iconografo la sua arte è primariamente una disciplina ascetica, attraverso la quale egli si esercita spiritualmente a divenire sempre più conforme all’Immagine di Dio.
Un cammino di fede che richiede costanza e abnegazione ed il cui risultato finale non è soltanto la realizzazione dell’icona quanto piuttosto dell’iconografo. Così un importante Concilio ortodosso, quello dei “Cento Capitoli” di Mosca del 1551 – quando l’occidente vive in pieno umanesimo ed i legami tra arte e liturgia si erano sciolti, e i canoni antichi della Chiesa, ormai persi tra le pieghe della storia – prescrive ai vescovi di vigilare ciascuno nella sua diocesi affinché «gli iconografi si astengano da fantasie e seguano la Tradizione [...] a colui che è stato privato da Dio di questo dono sia proibito di dipingere le icone. L’icona di Dio non deve essere affidata a coloro che la sfigurano e disonorano».
Il ruolo dell’iconografo era preso molto seriamente, per cui il talento non era sufficiente ma era richiesta una condotta di vita santa e coerente, ed egli doveva impegnarsi a vivere in maniera conforme alla fede professata, purificando la sua anima nell’ascesi, nel digiuno e nella preghiera. Prima di mettere mano al pennello, l’iconografo entrava in un periodo di preparazione spirituale che poteva durare anche trenta o quaranta giorni, terminato il quale, dopo aver chiesto il sostegno dello Spirito Santo, iniziava la sua opera. Si sentiva investito della responsabilità e della missione di dipingere con la luce la Parola di Dio e di mostrarla agli uomini in una dimensione trasfigurata.
Il suo non era un mestiere o un piacevole passatempo, ma una vera e propria vocazione che doveva sottostare a regole precise: «L’iconografo si rivolga al padre spirituale di frequente, informandolo di tutto, viva secondo le sue prescrizioni e insegnamenti, in digiuno, penitenza ed astinenza, con mente umile e senza nessuno scandalo né mancanza di decoro e con somma attenzione dipinga l’immagine di Nostro Signore Gesù e della Sua Madre purissima, dei santi profeti, apostoli e martiri, delle donne venerabili, delle guide della Chiesa e dei santi Padri», annota lo stesso Concilio moscovita. L’iconografo è chiamato a vivere un monachesimo interiorizzato, indipendentemente dal suo stato di vita, sia egli un religioso o un laico.
Un Concilio celebrato a Mosca un secolo più tardi di quello citato (1666) metterà in rilievo la condotta esemplare a cui l’iconografo è tenuto in virtù del dono ricevuto: egli dovrà «essere ricolmo di umiltà, dolcezza e pietà, fuggire i propositi futili, le vanità. Dovrà comportarsi pacificamente e ignorare l’invidia. Non dovrà ubriacarsi, non ruberà e soprattutto dovrà osservare con scrupolosa cura la povertà spirituale e corporale».
Non era quindi una persona che nel tempo libero si dilettava a dipingere, ma la sua intera vita era consacrata a questa missione. Come un sacerdote è tale durante la Liturgia allo stesso modo in cui lo è fuori, così un iconografo è tale in ogni istante della sua esistenza e quando lo dimentica rischia di tradire la sua chiamata.
Un antico podlinniki russo, un manuale che raccoglieva disegni, istruzioni e canoni ad uso dei laboratori iconografici, accosta arditamente la funzione dell’iconografo a quella del sacerdote: «Il ministero sacro della rappresentazione iconografica comincia già presso gli apostoli […] Il sacerdote nei servizi liturgici ci presenta il Corpo del Signore per mezzo della forza delle parole […] L’iconografo lo fa per mezzo delle immagini». Egli svolgeva quindi un vero e proprio ministero a servizio della Chiesa.