Esiste una relazione strettissima tra l’icona e la teologia, tanto che l’icona può essere definita come un vero “trattato di teologia a colori” e conseguentemente l’iconografia come un’arte teologica. Tra le funzioni principali dell’icona c’era e c’è ancora oggi, quella di dire in immagine ciò che crede la Chiesa e rendere evidente e chiara la sua teologia. Per questo motivo il linguaggio utilizzato nell’icona doveva essere univoco e comune in ogni luogo in cui la Chiesa fin dai primi tempi si stabiliva, fatte salve le differenze locali. Ogni cristiano, in qualunque luogo si spostasse, anche se non conosceva la lingua del posto, poteva, entrando in una chiesa e partecipando alla liturgia comprendere ciò che si svolgeva e vivere profondamente la comunione con il Signore. Era possibile fare esperienza della cattolicità della Chiesa, proprio attraverso il linguaggio universale dell’icona. E affinché gli iconografi trasmettessero, attraverso le loro opere, una teologia corretta ed una fede ortodossa, dovevano essere, non solo esperti nella loro arte ma era necessario che fossero anche degli eccellenti teologi, uomini che meditavano a fondo la Sacra Scrittura e conoscevano la dottrina della Chiesa. Spesso nella progettazione delle loro opere erano affiancati da altri teologi. In epoche in cui facilmente nella Chiesa nascevano e si sviluppavano dottrine eretiche, gli iconografi avevano il compito di testimoniare la retta fede e di raccontarla. Per rispondere ad Ario che considerava Cristo solo un uomo, ma rifiutava di credere nella sua divinità, tesi già condannata dal Concilio di Nicea del 325, ai lati dell’immagine di Cristo si posero le lettere Δ Ώ, in riferimento al passo di Ap 22,13, proprio per esprimere la realtà di Gesù vero Dio e vero uomo. Ugualmente dopo il Concilio di Efeso del 431 che afferma il dogma della divina maternità di Maria contro le tesi nestoriane, nell’icona della Theotokos in trono, accanto alla figura di Maria si prese a scrivere le lettere greche ΜΡ ΘΥ, che sono la contrazione del termine “Madre di Dio”. Gli iconografi erano ben consapevoli che una teologia scorretta avrebbe prodotto delle icone eretiche, che non avvicinavano i fedeli alla Verità ma semmai li conducevano lontano. Ai vescovi era quindi chiesto di vigilare sulla correttezza del messaggio teologico delle immagini prima di ammetterne la presenza e la collocazione all’interno degli edifici di culto. Questo principio nella Chiesa antica era molto chiaro, e non a caso all’iconografia era attribuito un ruolo fondamentale nella formazione dei cristiani: catechesi, pedagogia e mistagogia. I Padri della Chiesa, inoltre, insegnavano la fede non solo con la predicazione verbale ma anche mediante l’iconografia; perciò, è lecito ed appropriato parlare di una vera “teologia dell’icona”. A questo proposito vale la pena citare alcuni esempi che possono far intuire l’importanza dell’icona e il posto che nella pastorale le era riservato. San Basilio Magno in un’omelia in memoria di San Barlaam martire dice, rivolto agli artisti che avevano affrescato la chiesa in cui stava celebrando: «Alzatevi ora dinanzi a me, voi che avete dipinto i meriti dei santi. Completate con la vostra arte quest’icona incompiuta del condottiero. Rischiarate con i fiori della vostra sapienza l’immagine che ho tracciato del martire incoronato. Che io sia vinto dalla vostra raffigurazione delle azioni eroiche dei martiri; sarò felice di riconoscere per questa volta ancora, una tale vittoria su di me». E San Gregorio di Nissa dirà: «La pittura muta parla sui muri e opera un grande bene». La vista aveva un ruolo fondamentale nella predicazione del Kerygma cristiano tanto che i Padri lo consideravano il primo tra i sensi. È emblematico quanto scrive San Giovanni Damasceno: «Se un pagano viene da te e ti chiede: mostrami la tua fede! Tu portalo in chiesa e mettilo davanti alle sante icone».
© Tutti i diritti riservati . E’ vietata la copia e la riproduzione dei contenuti in qualsiasi modo o forma se non autorizzata espressamente dall’autore