Il legame che unisce l’icona e la Bibbia è strettissimo. Tanto che una delle definizioni che si possono attribuire all’icona è quella di essere “Sacra Scrittura a colori” oppure “Parola di Dio dipinta”. L’icona esprime in immagine ciò che la Bibbia dice con la parola scritta. Vi è quindi tra di esse una corrispondenza piena e perciò l’iconografia nel suo esprimersi ha la necessità di aderire fedelmente al dato scritturistico, evitando interpretazioni fantasiose o lasciando al solo giudizio soggettivo e arbitrario dell’artista il modo e il contenuto della rappresentazione. Così come il testo della Scrittura non si può cambiare a piacimento, né inventare, anche l’iconografia deve seguire delle regole e dei canoni precisi. Le sue raffigurazioni devono essere conformi al testo scritturistico e le interpretazioni teologiche fedeli all’insegnamento della Chiesa. Per comprendere fino a che punto l’iconografia canonica sia fondata sulla coerenza alla Scrittura, si possono fare alcuni esempi. Il momento e il modo della Resurrezione di Cristo, come non ci viene riferito dagli evangelisti, così anche nell’icona viene coperto da un rispettoso silenzio. Il testo evangelico ci descrive il prima e il dopo, ma non il durante dell’evento. Ci parla della passione del Signore, della sua crocifissione, morte e deposizione, e poi del momento in cui le donne e i discepoli vanno al sepolcro e lo trovano vuoto, ma di ciò che è avvenuto nel sepolcro e di come è avvenuta la resurrezione, gli evangelisti non dicono nulla. Allo stesso modo e per il medesimo motivo, l’iconografia non raffigura il momento della resurrezione, ma solo ciò che è avvenuto precedentemente e successivamente. Dalla deposizione si passa alle scene del sepolcro aperto: le mirofore, cioè le donne che portano gli unguenti per ungere il corpo di Gesù, oppure Maria Maddalena che incontra il risorto, o ancora Pietro e Giovanni che accorrono e trovano il sepolcro vuoto. Ed è proprio nel grande silenzio del Sabato Santo che l’iconografia pone l’icona teologica della “Discesa agli inferi”. Pensiamo invece a come nel Rinascimento Piero della Francesca e Raffaello Sanzio dipingono la scena della Resurrezione, con la solenne immagine di Cristo che esce vittorioso dalla tomba tenendo in mano il vessillo della croce. In questo caso si tratta di una lettura fantasiosa dell’artista, fortemente idealizzata e non legata direttamente al testo biblico. Un altro esempio interessante: in iconografia lo Spirito Santo viene raffigurato in forma di colomba, unicamente nell’episodio del Battesimo di Gesù al Giordano, proprio perché è l’unico passo evangelico (Mc 1,9-11) in cui si descrive in tal modo. Fin dai primi secoli i luoghi di culto cristiani si rivestono di scene bibliche non solo per raccontare o descrivere la Bibbia in maniera letterale, ma per insegnare e suscitare nei credenti la preghiera. Già nel V secolo, San Nilo il Sinaita rispondendo al prefetto Olimpiodoro che intendeva decorare una chiesa appena edificata con scene di caccia, scrisse: «Alla tua lettera rispondo che è puerile sedurre l’occhio dei credenti con quanto descritto sopra...La mano del miglior pittore deve ricoprire i due lati della chiesa con immagini dell’Antico e del Nuovo Testamento, affinché quanti ignorano l’alfabeto e non possono leggere le Sacre Scritture, guardando le raffigurazioni dipinte richiamino alla memoria le azioni coraggiose di coloro che hanno servito Dio senza esitazioni, così saranno invogliati ad emulare le virtù degne di perpetua memoria che hanno fatto sì che quei servi di Dio preferissero il cielo alla terra e l’invisibile al visibile». Come si evince da questo brano l’icona non aveva solo una funzione narrativa e letterale, ma assume un ruolo pedagogico ed etico. Le scene e i personaggi rappresentati non dovevano sollecitare i sentimenti e i gusti estetici ma muovere lo spettatore ad imitare le loro virtù.