“Canone e Spirito: la vera libertà dell’iconografo”
La novità dell’icona nasce dalla fedeltà, non dall’invenzione
Fedeltà e creatività nell’icona: perché ispirarsi ai modelli canonici non è copiare
Oggi si sente spesso dire che l’iconografo debba “rinnovare” il linguaggio iconografico, “creare” nuove icone o “reinterpretare” i soggetti sacri secondo la propria sensibilità personale. Questa tendenza, apparentemente ispirata da un desiderio di autenticità o di ricerca spirituale, nasconde in realtà un grave equivoco teologico e artistico: quello di confondere la fedeltà con la ripetizione meccanica, e la creatività con la soggettività individuale.
L’icona non è un’invenzione, ma una rivelazione
L’icona nasce nella Chiesa, dalla vita liturgica e dalla fede della comunità credente. Non è un’opera d’arte nel senso moderno, né il frutto di un sentimento personale, ma una testimonianza visibile della fede.
Per questo l’iconografo non “inventa” nulla: egli riceve una tradizione e la trasmette. Ed ha il dovere e la responsabilità di custodire il tesoro di fede e di arte che ha ricevuto. La fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Sacra Tradizione è un elemento fondamentale, cosa già evidenziata dal Concilio di Costantinopoli del 692. Senza questa coerenza, si possono dipingere le icone, anche in modo artisticamente pregevole, ma non si è davvero iconografi. 
Seguire i canoni non significa “copiare” un’immagine antica, ma inserirsi nel linguaggio sacro che la Chiesa ha custodito e purificato nei secoli, proprio per garantire la verità teologica del suo messaggio.
Il canone come libertà, non come limite
Il canone iconografico non è una gabbia, ma un confine sacro che custodisce il Mistero. L’obbedienza ai modelli non toglie libertà: la trasfigura.
All’interno dei canoni, ogni iconografo esprime la propria mano, la propria sensibilità spirituale, ma sempre in comunione con la fede della Chiesa, non in opposizione ad essa.
Il vero iconografo non cerca di “emergere” ma di scomparire, lasciando che sia Cristo a farsi visibile attraverso di lui. 
San Teodoro Studita scrive:
“L’iconografo è ministro, non autore del mistero che rappresenta; egli mostra con i colori ciò che la parola annuncia con i suoni.”
(Discorso sulla retta fede, PG 99, 401D)
Il rischio della soggettività
Quando l’iconografo pretende di “creare un’icona nuova” interpretando la Scrittura secondo la propria sensibilità e il proprio gusto, si allontana dallo spirito dell’icona e cade nella soggettività.
Senza una formazione teologica, e senza obbedienza ai canoni, il risultato non è un’icona ma una pittura religiosa personale, priva della grazia e della verità che la Chiesa riconosce come proprie dell’immagine sacra.
In questo modo, il gesto dell’artista si sostituisce all’azione dello Spirito.
Come ammonisce ancora San Teodoro Studita:
“Non è lecito a nessuno innovare nella fede o nei simboli della fede, né aggiungere né togliere nulla a ciò che la Chiesa, in comunione universale, ha ricevuto dai santi Padri.”
(Lettera a Naucrazio, PG 99, 1040C)
Invece, la tradizione iconografica chiede che l’icona sia in continuità con la tradizione con la Chiesa, non una mera “espressione dell’io”. Il concilio di Nicea II precisò che la distinzione tra «adorazione» (latreia, riservata esclusivamente a Dio) e «venerazione /onore» (timētikē proskynēsis, riservata alle immagini) è essenziale.
Questo implica che l’icona non è strumento di egocentrismo teologico e artistico ma veicolo di comunione.
Ispirarsi a un’icona antica non significa copiarla, ma attingere alla fonte pura della Tradizione. L’icona non ha bisogno di essere reinventata: ha bisogno di essere compresa e vissuta.
Solo nella fedeltà ai canoni e nella docilità allo Spirito, l’iconografo diventa veramente creatore nel senso più alto, perché coopera con Dio nel rendere visibile l’Invisibile
Ispirarsi a un’icona antica non significa copiarla, ma attingere alla fonte pura della Tradizione.
La missione dell’Accademia Santu Jacu è quella di tramandare la Tradizione della Chiesa, formando iconografi che restino fedeli ai canoni iconografici, perché solo attraverso questa fedeltà l’arte può divenire realmente strumento di grazia e luogo di incontro tra l’umano e il divino.





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